LA CASA DEI SEI CAMINI
Storia vera di Alice T., raccolta da Simona Maria Corvese
Avevo capito subito che quella dimora di fine Ottocento era un luogo speciale per me e ora so perché. In passato c’è stato tanto amore e ce ne sarà ancora. Perché è qui che Daniele e io abbiamo scelto di vivere.
“Lei chi è? Cosa ci fa in casa mia?”, mi tuona con una voce profonda.
Immobile sulla porta della cucina, sbianco, incapace di parlare. “Ora è anche casa mia”, balbetto con il cuore in gola per lo spavento. Mi chino a raccogliere la tazza di caffelatte che gli ho fatto cadere a terra quando si è voltato e, vedendomi, è sussultato. Il contenuto è tutto sulla sua t-shirt. Ho cercato di segnalare la mia presenza ma era talmente intento ad ascoltare un’aria di opera lirica, mentre mi dava le spalle, che non mi ha sentita. Stavo anche riflettendo se posargli una mano sulla spalla: troppo tardi.
“Mi spiace tanto”, dico, avvicinandomi a lui ma non sapendo cosa fare per aiutare.
“Tranquilla, non è niente. In realtà no: è bollente”, borbotta.
“Dovrebbe toglierla”, grido per sovrastare la voce del tenore alla radio e preoccupata che si sia ustionato.
Mi schiva ancora diffidente mantenendo però lo sguardo su di me. “Sono Alice, la sua nuova coinquilina. Non le hanno detto del mio arrivo?”, mi sgolo porgendogli la tazza. Lui la posa nel lavandino poi, finalmente, spegne la radio. Perplesso, si passa la mano tra gli arruffati capelli color sabbia con qualche riflesso naturale molto più chiaro, poi nel suo sguardo intelligente si accende un guizzo di memoria e annuisce. “Sono Daniele, molto lieto”, mi sorride, sedendosi sullo sgabello ed emettendo un sospiro di sollievo. In quel momento una massa di pelo morbido mi sfiora le gambe e sono io a trasalire. “E lui è Lupo, il mio husky. È un cucciolone”, mi tranquillizza andando ad aprire la porta finestra. Il sole e l’aria tiepida di primavera inondano il locale “Vuole uscire in giardino: è il suo paradiso”. Mi sono innamorata anch’io del profumo dell’erba appena tagliata di quel praticello cintato tra alte case, nel quale cresce un ciliegio, ora in piena fioritura. Un giardino privato interno è una cosa non comune in città, dove lo spazio è raro. Mi propone di darci del tu, visto che vivremo nella stessa casa. Io accetto, anche perché siamo pressoché coetanei. “Preparati pure la colazione, Alice. Io vado a farmi una doccia”, mi dice scostandosi la maglietta, appiccicata ai muscoli tonici del petto, con al centro un’enorme macchia marrone. Sono arrivata ieri sera e la casa era vuota. “È un ingegnere e ha trasferte di lavoro anche di mesi”, mi aveva informata la proprietaria “Tornerà non prima di lunedì ma non so quanto si fermerà”. È sabato mattina ed è già qui. Trascorro il resto della giornata a sistemare le cose nella mia stanza in mansarda. È luminosa, le finestre hanno i vetri all’inglese con vista sui tetti delle altre case. Ho anche un bagno personale, una cabina armadio e un camino con il ripiano in marmo, che non so far funzionare. Gli ambienti comuni sono il soggiorno, la lavanderia, la cucina e la sala pranzo. Verso sera passa la proprietaria a chiedermi se mi piace la casa. “È un sogno”, esclamo poi, sapendo che non vuole tenerla, le dico che piacerebbe a me. “Non ho fretta”, mi risponde sorridendo, mentre fa per andarsene. Dopo aver fatto la spesa e mangiato una pizza, vado in soggiorno con l’intenzione di vedere se nella libreria, che copre un’intera parete, ci sia qualche libro interessante da leggere. Afferro un romanzo romantico e faccio per sedermi sul divano. Quella parte del locale è in penombra e solo all’ultimo momento mi accorgo che c’è qualcuno sdraiato sopra. È lui. Con uno scatto si mette a sedere e accende la luce della lampada sul tavolino accanto al divano. Quest’uomo è silenzioso come un gatto. È uscito di casa stamattina: quando è rincasato? Non lo ho sentito. Mi fa cenno di sedermi pure all’altro capo del divano. Mi studia e dall’espressione sulle labbra, capisco che mi ha già inquadrata . “Che cosa ti ha fatto decidere di cambiare casa?”, mi chiede.
“Nell’appartamento dove vivevo non mi trovavo bene con i miei coinquilini: erano rumorosi, disordinati e mi hanno rubato anche delle cose. Non mi sentivo più al sicuro con loro”, dico accomodandomi tra i cuscini colorati. Non so se ho fatto bene a essere così schietta. Daniele e io siamo perfetti estranei. Lui mi offre tutta la sua comprensione, ma non si scompone per la mia affermazione. “Per sentirmi più tranquilla gli ultimi giorni prima di trasferirmi qui sono stata in motel”. Ometto di dire che ho stretto i denti per vivere un giorno alla volta lì, andando a filo con i miei risparmi mensili. Lo sguardo di Daniele è ora dispiaciuto ma non mostra pietà. “Con me sei al sicuro, puoi stare tranquilla”, mi risponde all’altro capo del lungo divano e mi sorride rassicurante. Una sensazione di tepore mi s’irradia in tutto il corpo e non so cosa fare: non mi aspettavo una reazione così alla sua gentilezza. La proprietaria mi ha assicurato che Daniele è una persona per bene e io annuisco, abbozzando un sorriso. Un collega di lavoro mi ha segnalato questa incantevole casa di fine Ottocento, con le imposte e la facciata di mattoncini rossi. È completamente ristrutturata e si trova ai margini di un parchetto pubblico. Ha anche sei camini nei suoi enormi locali. “Questa casa è talmente vicina alla scuola elementare dove insegno, che la raggiungo a piedi, con un notevole risparmio a fine mese”, gli confido. La sua espressione muta e mi rivolge un ampio sorriso. “E la casa è incredibilmente spaziosa”, aggiungo entusiasta. “A volte però questo posto diventa affollato. I miei fratelli e sorelle si presentano senza preavviso e improvvisiamo cene. Quindi se vuoi privacy è meglio andare nella tua stanza” poi si alza e va ad accendere il camino. “Non ho mai vissuto in una casa con dei camini, prima”, confesso guardando le fiamme crepitanti. Un profumo di pigne si sprigiona subito nel locale. Niente di più piacevole in questa umida serata primaverile. “È deliziosa e ce n’è uno anche in camera mia ma non so se è vero”. Daniele prorompe in una risata musicale. “Tutti i camini in questa casa sono veri”. “Beh, allora sarà una nuova esperienza per me: non so da che parte iniziare ad accendere il fuoco”, rispondo, mettendomi un plaid sulle gambe. “Ti posso insegnare io”. Lo guardo esitante “Non so se ci riuscirò” ma lui si dichiara certo che ce la farò. Si allontana dal fuoco e mi dice che va a prepararsi qualcosa di caldo da bere in cucina, prima di ritirarsi nella sua camera. Ci salutiamo e io rimango ancora un po’ lì, in compagnia del mio romanzo, sentendomi finalmente in un rifugio sicuro.
La mattina dopo ci ritroviamo in cucina per la colazione. “Con la precedente coinquilina facevamo i turni per cucinare”, mi dice sorseggiando il suo cappuccino “Tu come preferisci fare?”. “Beh, non sono una chef”, dichiaro addentando la mia brioches, seduta su uno sgabello del tavolo, di fronte a lui “ma me la cavo con le basi della cucina”. “Le basi vanno benissimo!”, mi risponde allegro. Intanto mi alzo, attirata dal profumo del caffè che esce dalla moka e, andando a spegnere il gas, lo ringrazio. Dopo esserci organizzati, Daniele mi fa vedere il suo ufficio in casa. Si è messo in società con altri due ingegneri e parte della settimana lavora ai suoi progetti da remoto. “Ho lavorato per dieci anni negli U.S.A. ma ora sono contento di essermi messo in proprio ed essere tornato a casa”, mi dice “Comunque le cose stanno andando bene e presto potrò avere una mia casa”. Io mi guardo intorno annuendo “Anch’io ho voglia di avere una casa tutta mia”. Qualche sera dopo mi trova al lungo tavolo della sala pranzo, completamente coperto da quaderni con scritti e disegni colorati. “Lavori ancora?” mi chiede stropicciandosi la barba ispida e lanciandomi uno sguardo penetrante. Ipnotizzata da quegli astuti occhi grigi, faccio fatica a riprendere il filo dei miei pensieri ma gli spiego che ho appena finito di correggere i pensierini dei miei bambini. “Che belli i tempi dell’infanzia”, esclama, avvicinandosi a guardare i quaderni. Io faccio una smorfia e lo stupore prende il posto del sorriso sul suo volto. “Mio padre lasciò mia madre quando seppe che era incinta. Mi ha cresciuto lei da sola e ho avuto un’infanzia da nomade: ci siamo sempre spostate dove era il lavoro. Non so quante case abbiamo cambiato”, gli spiego. “È per questo che ora vorrei fermarmi e mi piace molto questa casa”. Daniele annuisce attento ma non dice nulla. È pensieroso. Metto via gli elaborati dei bambini e dopo un po’ vado in salotto, dove riprendo il puzzle che ho iniziato qualche giorno fa. “Ti piacciono molto”, osserva fermandosi a guardare la figura che sta prendendo forma. “Mi piacciono i rompicapo perché la mia vita è stata piena di problemi da risolvere”, annuisco concentrata sul gioco. “Ti aiuto”, mi dice sedendosi accanto a me e mi guarda con tenerezza. “Mia madre è sempre stata distante, distratta. Talmente presa a sopravvivere che a volte trascurava anche le cose più basilari. Ero arrabbiata con lei perché ero troppo piccola per capire cosa stesse attraversando”, gli confido con fiducia. Sento che Daniele è una bella persona. “Io invece ho avuto genitori troppo severi. Ricevevo dure punizioni se non prendevo voti alti a scuola e mi negavano l’affetto se non mi comportavo come volevano. S’intromettevano anche nella mia vita sociale, inclusa la scelta di attività, amici o fidanzate. Dovevo eccellere in tutto”, mi rivela sorprendendomi. Lui non è una persona così rigida. Posa la sua mano sulla mia, con comprensione e spontaneità ed è in quel momento che capisco di provare dei sentimenti per lui. Ricambiati.
Qualche giorno dopo diamo una mano all’orto comunitario del quartiere, nel quale si è ricreata l’atmosfera di un villaggio, in piena città. È una bella esperienza che fa incontrare le persone del vicinato e sviluppa lo spirito di comunità. Mentre smuoviamo la terra umida l’aria è impregnata del profumo dei fiori appena sbocciati, misto a quello del basilico e della salvia. “Sei una bella ragazza”, mi dice lui, scostandomi una lunga ciocca di capelli che mi è caduta sulla fronte sudata “Chi è il fortunato ad avere il tuo affetto?”. Lo guardo con tenerezza. “Sono stata rifiutata da diversi ragazzi, anche se ci piacevamo”, confesso “La mia condizione sociale ha avuto un peso nel scoraggiarli. Ero la brava ragazza, che purtroppo viveva nel quartiere sbagliato”. Daniele mi guarda con rincrescimento, prendendo un cesto colmo di pomodorini “Tu non hai colpa di questa situazione”. Io annuisco, concentrandomi sul calore dell’aria umida sulla mia pelle per non farmi prendere dall’emozione dei ricordi. “Sì ma non voglio la compassione di nessuno. Sto bene così ora. E tu?”. Daniele scuote la testa “Mi hanno insegnato a trattenere le emozioni, piuttosto che essere ridicolizzati per averle provate. Manifestarle è debolezza. Così ora a volte vorrei esprimerle con spontaneità ma non so come fare”, mi dice raccogliendo i fiori delle zucchine, con i quali più tardi cucineremo frittelle in pastella. “Quello che più temo è di diventare genitore, un giorno e portare nella casa la stessa tossicità che c’è stata nella mia famiglia”. “Io ti trovo molto affettuoso nei miei confronti, Daniele”, esclamo sorpresa. “perché con te mi sento a mio agio”, mi confida con gli occhi che gli brillano, sporgendosi verso di me. “Alice, ho creduto di non aver bisogno di te ma ora so che ho desiderio di te”. In quell’istante mi rendo conto che i sentimenti romantici che proviamo l’uno per l’altra sono reali. Colmo la distanza che ci separa e stiamo per baciarci, quando arriva un giardiniere a portarci un’altra cesta da riempire di zucchine. Ormai il momento è passato. I nostri sguardi condividono lo stesso pensiero, in quell’istante: “riprenderemo quel che abbiamo lasciato in sospeso”.
Un mese dopo do la mia festa di compleanno in casa, invitando anche dei colleghi e la proprietaria di casa. Durante il ricevimento sento dei frammenti di discorso tra Daniele e la donna. Intendo che si è accordata con lui per la casa. “Daniele mi ha mentito e ha lavorato alle mie spalle”, penso affranta ma anche piena di rabbia: mi ha presa in giro. “Avrà anche finto di essere attratto da me. Che ingenua sono stata a credergli”. Invece di essere pratica e chiarirmi con lui, mi allontano in giardino, con le lacrime agli occhi. “Cosa è successo, Alice?”, mi chiede una collega che, vedendomi turbata, mi ha seguito in giardino. Io gli spiego tutto ma lei non è d’accordo. “Daniele è veramente attratto da te, fidati. Vai a parlargli e fai chiarezza”, mi esorta energica. Rientro in casa e lo trovo in cucina, da solo. È di fronte a un cassetto aperto e ha in mano un foglio ingiallito. “Cos’è?”, gli chiedo. Lui alza lo sguardo verso di me, con un’espressione commossa. “È la ricetta della torta di mele di mia nonna”. Leggo il contenuto poi lo guardo perplessa. “Era rimasto incastrato in un angolo del cassetto, sotto un mucchio di cianfrusaglie”. Io lo guardo sempre più confusa, poi gli restituisco il foglio. “Ho capito che hai sentito parte della conversazione di poco fa, Alice ma hai frainteso”, mi dice, prendendo l’iniziativa. “Questa era la casa dei miei nonni. Stavo con loro nei week end. I miei ricordi più belli sono qui e se ho imparato cosa voglia dire amare incondizionatamente, lo devo a loro”. Mi guarda come se potesse leggermi nell’anima e io mi sciolgo. “Non posso riportare indietro quei giorni ma aver vissuto in questa casa, i buoni sentimenti che ho avuto qui, posso averli ancora”. Tra noi c’è una tacita connessione. “Voglio questa casa, Alice ma insieme a te”. Sono commossa dalle sue parole perché ora capisco quali erano le sue intenzioni.
Sono passati due anni da quel giorno, Daniele e io ora siamo una coppia felice. Speriamo di avere presto dei figli e già li immaginiamo crescere qui, nella casa dei sei camini. Dal giardino la guardo: avevo capito subito che era un luogo speciale per me e ora so perché. In passato qui c’è stato tanto amore e ce ne sarà ancora, perché è qui che Daniele e io vivremo la nostra vita insieme e aggiungeremo nuovi ricordi.
«La casa dei sei camini» copyright © 2023 Simona Maria Corvese
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